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San Cipriano Picentino. Storie di uomini e di cose*
... ogni angolo, ogni via campeste di
San Cipriano Picentino mi stanno vivi innanzi...
(Benedetto Croce, 1947)
Il Comune di San Cipriano Picentino è situato nell’immediato entroterra collinare della città di Salerno. Si estende per 17.4 Kmq, stretto tra i profili montuosi del versante tirrenico dei Monti Picentini e la parte settentrionale dell’antico «seno pestano», a ridosso della Piana di Pontecagnano. Dal 1806 e, definitivamente dal 1946, il suo perimetro storico è delimitato a Nord – Est dai confini dei Comuni di Giffoni Sei Casali e Giffoni Valle Piana, a Nord –Ovest da quelli dei Comuni di Castiglione del Genovesi e San Mango Piemonte ed a Sud da quelli del Comune di Pontecagnano Faiano e della zona orientale della Città di Salerno. Il Territorio è composto dal Capoluogo, denominato San Cipriano, (365 mt s.l.m.), storica sede degli Uffici Amministrativi, e da quattro frazioni: Vignale (415 mt. s.l.m.), Pezzano, Filetta e Campigliano.
Cenni Storici
Strabone attribuisce la formazione del primo insediamento ad opera dei Picenti, mentre le testimonianze archeologiche attesterebbero una presenza antropica organizzata già intorno alla seconda metà dell’VIII secolo a.C.. La storia antica, in particolare l’influenza territoriale che ebbero le vicende legate alla distruzione della città di Picentia, sembrano essere ricordate anche dalla etimologia del toponimo comunale della frazione di Campigliano che si farebbe derivare da Campi Sillani, ossia lo spazio di battaglia entro il quale avvenne la definitiva sconfitta dei Picentini da parte dei Romani di Caio Mario Silla durante la Guerra Sociale (80-79 a.C.). Questa circostanza, infatti, è la motivazione fornita da Strabone (vissuto tra il 60 a. C. e il 20 d.C.) sulla presenza di villaggi popolati da Picentini sulle colline circostanti alla piana di Picentia: <<ora invece abitano (i Picenti) sparsi in villaggi essendo stati espulsi dai Romani dalla loro città (Picentia) per aver fatto causa comune con Annibale>>. A Campigliano inoltre, insiste il Castello di Montevetrano ubicato sull’omonima collina che domina l’ingresso nella Valle del Picentino: antico presidio d’osservazione, è testimoniato nel III secolo a.C. come Castrum romano. In seguito, tra il XI ed il XII secolo, venne anche dotato di solide mura perimetrali. La zona è ben documentata dal X secolo e si connoterà, fino all’urbanizzazione della seconda metà del XX secolo, come territorio infeudato caratterizzato da impianti seminativi e seminativi arborati. Stando alle fonti ed alla letteratura disponibile, risalgono all’età imperiale, invece, i ruderi di un impianto termale appartenenti ad una Villa rustica, rinvenuti nel 1974 in Via Pozzilli, nel cuore del Capoluogo, a due passi dalla Piazza principale del paese: si tratta di un grande impianto a terrazzamenti disposto su più livelli, di cui colpisce, a detta di insigni archeologi e studiosi <<il carattere monumentale e la ricchezza dei rivestimenti marmorei>>. Il più antico insediamento territoriale si formò tra VIII sec. a. C. ed il V secolo d.C. in corrispondenza delle attuali Via Pozzilli – Via Cioffi – Largo Chiesa Madre. Il centro produttivo era rappresentato dalla Villa che, pienamente inserita nella maglia insediativa collinare d’età romana, era dedita all’olivicoltura ed alle viti. Il centro antico sorgeva sul pianoro della “chiesa madre” (a quota 338 m. s.l.m. ) lambito alle sue estremità da due corsi d’acqua. A est da quello generato dalla Sorgente detta “Bagnara”, ad ovest da quello generato dalla sorgente detta “Pozzo”. Entrambi provvedevano all’approvvigionamento idrico dell’impianto produttivo, delle strutture abitate e dei terrazzamenti agricoli. A seguito della caduta dell’Impero Romano si assiste ad un generale crollo del sistema economico - sociale che mostrerà segni di ripresa con la discesa dei Longobardi e le azioni giurisdizionali ed amministrativa dei Principi di Salerno. A questi ultimi subentrarono dapprima i Normanni, poi gli Svevi. Ma fu dall’epoca angioina che si delinearono i Casali (San Cipriano, Filetta e Vignale), ossia centri abitati costituenti “pertinenze” della Città di Salerno che nella seconda metà del XV secolo formarono la Baronia di feudi “in capite”. Quest’ultima, passata vicendevolmente dal Demanio Regio a svariate casate nobiliari, nel XVII secolo appartenne alla nobile famiglia D’Avalos e dal 1647, fino al 1806, fu parte del grande ed esteso possedimento picentino dei Doria e Doria D’Angri.
Il Comune di San Cipriano nasce nel 1806 dall'aggregazione delle antiche terre dell'omonima Baronia: Vignale, Pezzano e Filetta, fino ad allora organizzate in piccole Università civiche. Il suffisso Picentino venne aggiunto a seguito del Decreto emanato il 23 Ottobre del 1862 da Vittorio Emanuele II. I suoi abitati sono il risultato della lenta e diversificata storia evolutiva del Territorio. Mentre il centro storico del Capoluogo denominato San Cipriano, i centri urbani di Vignale, Pezzano, Filetta – Campigliano si attestano a partire dal X-XI secolo. Il centro antico sorgeva sul pianoro dell'attuale “chiesa madre”, dedicata al Vescovo e martire Cartaginese Cipriano (338 mt. s.l.m.) lambito alle sue estremità da due piccoli corsi d’acqua: quello generato dalla Sorgente detta “Bagnara” e quello generato dalla sorgente detta “Pozzo”. In epoca imperiale, in particolare, tutto il territorio collinare e pedemontano ebbe come centro propulsivo la Villa rustica ( i cui ruderi sono visibili in Via Pozzilli) che, pienamente inserita nella maglia insediativa collinare d’età romana, era dedita all’olivicultura ed alle viti. Al generale crollo del sistema economico - sociale seguito alla caduta dell’Impero Romano, la discesa dei Longobardi determinò fasi di vitaleripresa, in particolare, sotto la giurisdizione dei Principi di Salerno. La comunità autoctona si sviluppò maggiormente a cominciare dal sec. XI, in seguito allo stanziamento di numerose famiglie in maggioranza salernitane, di gens longobarda e normanna che popolarono gli ampi possedimenti concessi dai Sovrani, attraverso la costruzione di Case Soprane e Sottane, dimore di nuclei familiari originari che, man mano, divennero agglomerati urbani e centri di produzione agricola e protoindustriale, fino a costituire veri centri, oggi storici, di rilievo sociale, urbanistico ed architettonico. Dall’epoca angioina (sec. XIV) si delinearono i profili urbanistici ed architettonici dei Casali (San Cipriano, Filetta, Pezzano e Vignale), ossia centri abitati costituenti “pertinenze” della Città di Salerno, formanti dalla seconda metà del XV secolo una Baronia di feudi “in capite”. Quest’ultima, passata vicendevolmente dal Demanio Regio a svariate casate nobiliari, nel XVII secolo appartenne alla nobile famiglia D’Avalos e dal 1647, fino al 1806, fu parte del grande ed esteso possedimento picentino dei Doria e Doria D’AngriDall’ XI fino al XV secolo, il Territorio risulta divisoin quattro aree disomogenee, amministrate delle Università: San Cipriano, Vignale, Pezzano, Fietta – Campigliano. Nella stesso periodo nella prima si assiste allo sviluppo di tredici impianti familiari; nella seconda a Cinque; nelle restanti, rispettivamente tre e due. La prima unità territoriale, politica e giurisdizionale fu raggiunta con la fondazione della Baronia, nata dall’accorpamento delle diverse e particolari ‘terre’. Fu in questo periodo, tra il XVI ed il XVII, che l’urbanizzazione e lo sviluppo locale raggiunse il massimo livello per effetto delle scelte socio-economiche impresse dall’apparato baronale.
Rimangono fino agli inizi del XIX secolo gli insediamenti sparsi, ad entità variabile e vocazione economica diversificata, proporzionali e compatibili, gioco forza, anche all’orografia territoriale e fortemente connotati dalla presenza di residenze nobiliari o strutture ed attività ad esse collegate. Entro la seconda metà dell’Ottocento gli abitati raggiungono il massimo ampliamento spaziale ed urbanistico. Quest’ultimo resterà pressoché inalterato fino agli ulteriori sviluppi degli anni Settanta e Settanta del XX secolo. In epoca storica San Cipriano risulta il più urbanizzato, per la presenza della maggior parte dei Palazzi e residenze nobiliari, dei fondaci e degli ingegni industriali relativi alla lavorazione ed alla manifattura della lana. Lo ‘spazio costruito’ raggiunge il massimo del suo sviluppo per l’iterarsi del fenomeno delle ‘case soprane’ e ‘case sottane’ che portano nella maggior parte all’ampliamento degli abitati di antica residenza o, in pochi casi, alla costruzione di nuove dimore.
Le Origini (VIII sec. a.C. – XI sec.)
Strabone attribuisce la formazione del primo insediamento ad opera dei Picenti, mentre le testimonianze archeologiche attesterebbero una presenza antropica organizzata già intorno alla seconda metà dell’VIII secolo a.C. . La storia antica, in particolare l’influenza territoriale che ebbero le vicende legate alla distruzione della città di Picentia, sembra essere ricordata anche dalla etimologia del toponimo comunale della frazione di Campigliano che si farebbe derivare da Campi Sillani, ossia lo spazio di battaglia entro il quale avvenne la definitiva sconfitta dei Picentini da parte dei Romani di Caio Mario Silla durante la Guerra Sociale (80-79 a.C.) . Questa circostanza, infatti, è la motivazione fornita da Strabone (vissuto tra il 60 a. C. e il 20 d.C.) sulla presenza di villaggi popolati da Picentini sulle colline circostanti alla piana di Picentia: <<ora invece abitano (i Picenti) sparsi in villaggi essendo stati espulsi dai Romani dalla loro città (Picentia) per aver fatto causa comune con Annibale>>. A Campigliano, inoltre, insiste il Castello di Montevetrano ubicato sull’omonima collina che domina l’ingresso nella Valle del Picentino. Antico presidio d’osservazione, testimoniato nel III secolo a.C. come Castrum romano, tra il XI ed il XII secolo, venne anche dotato di solide mura perimetrali. Tutta la zona, infatti, è ben documentata dal X secolo e si connoterà, fino all’urbanizzazione della seconda metà del XX secolo, come territorio infeudato caratterizzato da impianti seminativi e seminativi erborati. Campigliano e Montevetrano, detto monti qui betranus nel Codex Diplomaticus Cavensis nell’ anno 1064, rientra della perimetrazione del Comune di San Cipriano Picentino nel 1862 e definitivamente nel 1946). I ruderi del castello a pianta quadrangolare vigilano sull’antico ed esteso territorio picentino. Il mastio centrale dalla forma cilindrica è visibile da più punti, per un raggio di circa trenta chilometri quadrati: dalla costa dell’antica Salernum e di Pontecagnano, fino al litorale di Eboli; dall’immediato entroterra, alle forre del fiume Fuorni e più a nord, sino ai confini orientali del territorio anch’esso fortificato, verso Giffoni, Montecorvino e Olevano. Nel Codex Diplomaticus Cavensis, tra il IX e l’XI secolo, la località Silla, Silia, Siglia Campigliano, viene citata più volte e, per certi aspetti con insistenza, data l’immediata vicinanza ai confini orientali della città di Salerno e quale suo più prossimo possedimento. Le fonti descrivono questa zona, attigua alla bia pubblica o via antica (da alcuni studiosi identificata con un tratto della strada romana Annia- Popilia o Capua-Rhegium), ricca di produzioni agricole e di seminativi, dove si coltivavano prevalentemente arbores fructiferi o pomifera (alberi da frutto), arbustum vitatum (viti), avellaneti (noccioleti) e persino “alcuni piedi di castagne”, secondo le consuetudini del latifondo romano. Non a caso nella, villa rustica di epoca imperiale, i cui ruderi furono rinvenuti nel cuore del centro storico di San Cipriano Picentino, in località Pozzilli nel 1974, si produceva vino e olio. A Siglia, molti nobili salernitani di gens longobarda compravano ed affittavano le cosiddette clausure (appezzamenti di terreno recintati da siepi e fossati). Tra tutti emerge, per l’importanza e i cospicui investimenti, la figura di Donna Gemma, figlia di Landolfo di Capua e madre del Principe di Salerno Gisulfo II. Tra il 1009 ed il 1062 compra tutte le terre di Grimoaldo e dei suoi discendenti, arrivando a possedere una vastissima area produttiva. Dalla intricata rete dei contatti e delle compravendite che la riguardano emerge quanto Michele Cioffi scrisse nel 1980: “Indiscutibile la grande importanza che già nel secolo IX rivestiva l’intero territorio dell’attuale Comune di San Cipriano Picentino e zone contermini per la sua insostituibile posizione strategica dovuta alla sua topografia, dalla vicinanza alla capitale del Principato della quale era parte integrante, costituendone il naturale retroterra e l’antemurale difensivo”. Questa osservazione, cronologicamente avvalorata da quanto recentemente evidenziato dalle scoperte archeologiche (Scavi per la costruzione del Termovalorizzatore presso Cupa Siglia - 2008/2010), suggerisce una delle possibili e più probabili motivazioni circa la presenza del Castello sulla Collina di Monteventrano: punto di osservazione ‘a tutto tondo’ su un’area produttiva di confine, anticamente antropizzata, vasta e vulnerabile, anche per le sue molteplici direttrici viarie e fluviali; elemento di un esteso ‘filare difensivo’ costituito da Castel Vernieri (presso Fuorni di Salerno), dalla Torre del Bissido (Prepezzano di Giffoni Sei Casali) dal Castello di Terravecchia (a capo della stricturia di Giffoni che proteggeva l’ingresso, da e per la Valle del Sabato), da Castel Merola (San Mango Piemonte) e dai fortilizi di Olevano ed Acerno. Per ciò esso costituì, sin dall’epoca più remota, uno dei punti cardinali del sistema socio-economico locale. Ancora nel 1867, il castello e le sue adiacenze furono designate quale base di stazionamento dei Carabinieri reali per vigilare sugli accessi alla Valle e all’entroterra, contro le bande più o meno organizzate di briganti. Nella scarna letteratura a disposizione, inoltre, non mancano ipotesi e ricostruzioni, fondate e documentate, che lo individuano come nucleo fortificato già in epoca romana e, successivamente, come il castrum, posto a difesa della colonia di salernum dai bellicosi abitanti della vicina città di Picentia. Le recenti scoperte archeologiche, inoltre, hanno evidenziato la frequentazione antropica della collina, delle sue pendici e della sponda del fiume picentino dall’Età Neolitica all’Epoca medievale, rimarcando il ruolo significativo svolto dal colle, sulle pendici del quale potrebbero essere sorti i primi nuclei insediativi. Le poche fonti a disposizione, la bibliografia e le analisi architettoniche protendono a datare la costruzione del castello tra la fine del XIII e la prima metà del XIV secolo. Sicuramente, tra il 1334 ed il 1345, si assiste ad uno dei periodi più oscuri della storia della vicina città di Salerno, caratterizzato da guerre civili e tra ‘fazioni’ che misero ‘a ferro e a fuoco’ la capitale del Principato e le sue più immediate pertinenze, contrapponendo importanti famiglie salernitane, tra di loro, pro e contro i Sovrani angioini. Allora, La necessità di fortificare o di consolidare strutture preesistenti si fece impellente e necessaria: la cima della collina di Montevetrano, per la sua storica vocazione e posizione offriva un punto di osservazione e di difesa all’immediata ‘foria’ della città e sulle molteplici direttrici viarie. Ricostruire, o costruire solide mura difensive (circondando probabilmente il dojon secondo alcuni già esistente), fu il compito di quei milites fedeli al Re a cui la zona era andata in feudo: i Domnmusco, i Della Pagliara e i Cioffi. Dei primi, il territorio dell’attuale Comune di San Cipriano Picentino con le sue antiche pertinenze (tra cui anche Silia, Siglia, Campigliano) fu feudo sin dal 1292. Successivamente passò ai Della Pagliara, poi aii Cioffo, ai Della Porta, fino all’ascesa dei Baroni Santomango nella prima meta del XVI secolo. Il Codex Diplomaticus Cavensis documenta sin dall’anno 927, in loco “Campiliano”, l’esistenza di una “corte con le sue pertinenze”, appartenente ad Arechisio figlio di Leone Salvia. Successivamente, tra il 925 ed il 979, vengono cedute alcune “terre” presso “Monte Vetrano” o “Monte cui dicitur betranum” (dell’anno 975 è la prima citazione di “monte vetrano prope salernum”). L’esistenza del sistema agricolo ed economico locale anzidetto, documentato e caratterizzato da antiche consuetudini, porta a considerare la probabile presenza di più di un nucleo abitativo, di “corti”, ubicate tra la collina (dove poteva essere il “caput curtis” citato nell’anno 927) e le immediate adiacenze, non distanti dalla fascia costiera salernitana dove, dal I secolo d.C. , cominciarono a sorgere delle ville rustiche, connesse prevalentemente allo sfruttamento agricolo del territorio, come di recente hanno evidenziato le scoperte archeologiche (2008-2010). Da non escludere che uno di questi insediamenti poteva attestarsi anche lungo le sponde del fiume Picentino, a ridosso della “bia pubblica” (dove ancora oggi esistono antiche “masserie”, caratterizzate da complessi architettonici articolati e funzionali a sistemi produttivi di questo tipo). Si trattava cioè di mansi, affidati a più famiglie di coloni che con i loro attrezzi ed i loro animali provvedevano alla coltivazione, corrispondendo al signore quote di prodotto e denaro (il massaricium). Infatti, i documenti in nostro possesso sono eloquenti: La terra era concessa gratuitamente e, generalmente, per un periodo compreso tra i 10 e 12 anni, durante i quali il colono doveva impiantare prevalentemente la vite ed alberi da frutto, oltre a condurre il terraticum. Il raccolto di frutta e il vino veniva diviso a metà con il Signore, mentre i prodotti dell’orto erano ad esclusivo consumo dell’affittuario. Come già sottolineato in precedenza, nell’XI secolo emerge per l’importanza e per cospicui investimenti, la figura di Donna Gemma, figlia di Landolfo di Capua e madre del Principe di Salerno Gisulfo II. Tra il 1009 ed il 1062, infatti, compra tutte le terre di Grimoaldo e dei suoi discendenti, arrivando a possedere una vastissima area produttiva a ridosso della Città, assicurando così viveri, derrate alimentari e la sussistenza commerciale all’intero Territorio.
Solo nel XIII secolo il Castello appare nella sua interezza, dotato di solide mura perimetrali e con funzione prevalentemente difensiva. L’ingresso era situato sul lato che guarda l'odierna Giffoni Valle Piana. Entrati nel cortile vi si aprivano diversi ambienti di cui un sotterraneo (“piccola cisterna” o deposito). Tramite una scala si accedeva al piano residenziale dove vi erano alcune stanze. Sebbene lo stato dei luoghi non consenta più l’esatta ricostruzione ambientale, dopo tanti secoli, numerose spoliazioni e diversi rimaneggiamenti, è interessante notare la presenza di una “grande cisterna” documentata e riscoperta di recente da un gruppo di studio nell’Aprile, 2011. Si tratta un ambiente quadrangolare situato ai piedi della torre, coperto da una volta a botte che porta evidenti segni dell’incannucciato e dell’antico intonaco. Essa era utilizzata per convogliare e conservare le acque pluviali, attraverso un sistema di canali in terracotta collegati al mastio. Al suo interso si trova graffita una stringa di numeri romani IV, XI, LXXXIII. Non a caso una leggenda popolare vuole che dal castello diparta un misterioso e grande canale che arrivavi ai piedi della collina, fino a Campigliano. La presenza di questo ambiente che, rapportato alla struttura, risulta di considerevoli dimensioni, avvalora quanto sin qui sostenuto: Montevetrano, dapprima con la sua torre e successivamente con tutto il suo sistema difensivo, fu uno dei punti di osservazione e difesa del Territorio salernitano. Sentinella della Valle e centro propulsore di una economia agricola che contribuì a fare del Picentino uno dei territorio più ricchi di tutto l’entroterra salernitano.
Stando alle fonti ed alla letteratura disponibile, risalgono all’età imperiale, invece, i ruderi di un impianto termale appartenenti ad una Villa rustica, rinvenuti nel 1974 in Via Pozzilli, nel cuore del Capoluogo, a due passi dalla Piazza principale del paese: si tratta di un grande impianto a terrazzamenti disposto su più livelli, di cui colpisce, a detta di insigni archeologi e studiosi <<il carattere monumentale e la ricchezza dei rivestimenti marmorei>>. Il più antico insediamento territoriale si formò tra VIII sec. a. C. ed il V secolo d.C. in corrispondenza delle attuali Via Pozzilli – Via Cioffi – Largo Chiesa Madre . Il centro produttivo era rappresentato dalla Villa che, pienamente inserita nella maglia insediativa collinare d’età romana, era dedita all’olivicultura ed alle viti. Il centro antico sorgeva sul pianoro della “chiesa madre” (a quota 338 m. s.l.m. ) lambito alle sue estremità da due corsi d’acqua. A est da quello generato dalla Sorgente detta “Bagnara”, ad ovest da quello generato dalla sorgente detta “Pozzo”. Entrambi provvedevano all’approvvigionamento idrico dell’impianto produttivo, delle strutture abitate e dei terrazzamenti agricoli. La scoperta di questo impianto, infatti, si rivelò eccezionale e, sin dalle prime battute, gli studiosi non mancarono di sottolinearne l’importanza: “L’edificio per le sue caratteristiche di monumentalità e di lussuosità ha un interesse eccezionale ed ha caratteri degni dell’architettura dell’Urbe” scrisse l’allora Soprintendente ai Beni Storici della Campania, Raffaello Causa. Bruno D’Agostino, in occasione del XV Convegno sulla Magna Grecia, presentando l’attività di scavo di San Cipriano Picentino rimarcò la “ricchezza dei rivestimenti marmorei di una “terma romana di epoca imperiale”, in un’area che, per la sua posizione, avremmo immaginato periferica e provinciale”. Con l’avanzare degli studi e delle successive campagne di scavo durate più di trent’anni e mai ufficialmente concluse, si è fatta strada l’ipotesi, sempre più accreditata, che l’area di Via Pozzilli sia interessata nel sottosuolo dalla presenza di una Villa rustica terrazzata di età imperiale in cui si coltivava la vite e l’olivo, di cui è stato riportato alla luce il solo impianto termale e qualche ambiente adiacente. Gli studiosi datano la sua costruzione I –II secolo d.C., con riutilizzi parziali fino al VI secolo d.C.. L’area scoperta della “Villa” si estende tra gli attuali assi viari dell’anzidetta Via Pozzilli, di Via Cioffi, di parte di Via Francesco Spirito e Via Vernieri, compreso il sito della Chiesa Madre di San Cipriano, dove nel 1993/94 furono rinvenuti ulteriori setti murari di continuità, tuttora visibili all’altezza del Presbiterio. Lo scavo di Via Pozzilli portò ben in evidenza il calidarium, le suspensure e i tubuli dell’ ipocausto, insieme ad un ambiente interamente rivestito di marmi come vediamo nel Disegno gentilmente concesso dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici di Salerno, Avellino e Benevento. Non vi è dubbio che l’intera area era interessata da una imponente costruzione a più livelli a cui apparteneva anche il sottosuolo delle antiche e vicine case nobiliari. Una volta andata in disuso la Villa su quello che ne rimaneva sorse prima l’antica “Ecclesia Sancti Cipriani” (testimoniata per prima volta nel 1049 e fino al 1703 descritta dalle fonti ad impianto basilicale con le navate separate rispettivamente da un filare di sei colonne e capitelli di “spolio”) e successivamente almeno due nuclei di case storiche di importanti famiglie nobili provenienti dalla vicina Capitale del Principato, Salerno. A giudicare anche dai frammenti sparsi nell’area (rocchi di colonne, capitelli, fregi marmorei alcuni ancora in loco, altri dispersi e documentati solo in foto d’epoca) la costrizione sanciprianese doveva avere dimensioni non trascurabili. La presenza di una costruzione del genere a San Cipriano Picentino deve essere contestualizzata e considerata in misura “territoriale” quale tassello della “maglia insediativa tardoromana che si estendeva da Salerno al Sele e sviluppata secondo direttrici viarie che da Salerno si dipanavano verso il Cilento, la Lucania, e le aree interne, su uno scacchiere territoriale caratterizzati da eco ambienti diversificati, circostanza favorevole alle differenziazioni produttive: così ad esempio dalle ville sul pianeggiante litorale tra il Picentino e il Sele si doveva attendere in particolare alle produzioni cerealicole e ittiche mentre negli insediamenti collinari (San Cipriano Picentino, Montecorvino Rovella, Olevano, Battipaglia), olivicoltura doveva avere un ruolo predominante” Più in generale, per dirla con il Grimal, le Ville rustiche “ pur continuando ad essere considerate l’ideale più nobile da proporre all’uomo, tale da formare le nature più energiche e virtuose, viene affiancata da una precisa attrattiva del guadagno, come dal desiderio di realizzare una casa piacevole e comoda per il proprietario. Questi vi si sarebbe recato saltuariamente, quando fosse libero dall’attività politica, per trascorrervi periodi di riposo durante i quali avrebbe anche indirizzato i lavori agricoli per la stagione successiva e sorvegliato il proprio intendente, il villicus – schiavo o liberto – che lo rappresentava e gestiva in sua assenza tutto il personale. In queste proprietà terriere di grandi dimensioni, il centro della tenuta era rappresentato dalla villa, l’abitazione del proprietario, adattata alle necessità dell’attività agricola che, con lo sviluppo delle dimensioni delle tenute, il conseguente aumento della manodopera, il complicarsi dei procedimenti di fabbricazione dell’olio e del vino finirono per creare un tipo di villae rusticae, diffuse in Campania e nelle Regioni più ricche d’Italia”.
A seguito della caduta dell’Impero Romano si assiste ad un generale crollo del sistema economico - sociale che mostrerà segni di ripresa con la discesa dei Longobardi e le azioni giurisdizionali ed amministrative dei Principi di Salerno. A questi ultimi subentrarono dapprima i Normanni, poi gli Svevi. Ma fu dall’epoca angioina che si delinearono i Casali (San Cipriano, Filetta e Vignale), ossia centri abitati costituenti “pertinenze” della Città di Salerno che nella seconda metà del XV secolo formarono la Baronia di feudi “in capite”.
Dal Medioevo all’epoca baronale (XI – XV secolo)
Sin dall’epoca medievale il territorio fu caratterizzato dalla presenza di imponenti strutture religiose. In particolare, i Principi di Salerno patrocinarono la costruzione di tre grandi Chiese: quella dedicata a Santa Maria in Felecta (documentata nel 1013), quella di Sant’Eustachio in Vinealis (Vignale, documentata dal 1029) e l’Ecclesia Sancti Cipriani nel Capoluogo (documentata nel 1049). Quest’ultima in particolare sorge in linea con la villa romana e le sue fondamenta poggiano sulla mutazione che da essa promana.
Dal XII secolo le Chiese costituirono non solo il centro religioso, ma anche “poli aggreganti” per la socialità dell’intera Comunità. Quest’ultima, infatti, si sviluppò con lo stanziamento di numerose famiglie in maggioranza salernitane, di gens longobarda e normanna che, accanto agli autoctoni, popolarono gli ampi possedimenti concessi dai Sovrani, attraverso la costruzione di Case Soprane e Sottane, dimore di nuclei familiari originari che man mano divennero agglomerati urbani e centri di produzione agricola e protoindustriale, fino a costituire veri centri, oggi storici, di rilievo sociale, urbanistico ed architettonico. Si formarono così gli abitati dell’attuale Capoluogo San Cipriano (Vicus Sancti Cipriani dal 1064), di Vignale, mentre per le attuali frazioni di Pezzano , Filetta (e parte di Campigliano), un tempo rette da Universitàciviche autonome, la dinamica insediativa è caratterizzata dalla presenza di ampie ed articolate massarie che costituirono i maggiori centri produttivi di derrate alimentari, data la vocazione feudale a seminativo, incoraggiata, diversamente dai centri collinari, da un’orografia pianeggiante, da clima e temperature più mitigate anche d’Inverno. Un prezioso esempio di ‘architettura rurale minore’ è offerto dall’antico agglomerato, oggi detto Pezzano Antica, situato a ridosso della trecentesca Chiesa di San Giovanni Battista, mentre impianti agricoli di maggior rilievo sono disseminati nella campagna di Filetta dove, intorno alla Chiesa di Sant’Andrea, emergono residui di antiche masserie un tempo appartenute alle maggiori famiglie nobili del posto. La destinazione rurale ed agricola di questi centri evince nel 1754 in occasione della compilazione del Catasto Onciario della Terra di Filetta e Pezzano. In relazione agli arrivi familiari ed al loro insediamento storico si assiste ad un importante inurbamento che già nel XV secolo porterà alla formazione dei Casali (San Cipriano, Vignale e Filetta), ossia di centri abitati “pertinenze” della città di Salerno, come anzidetto.
In sintesi, dall’ XI fino al XV secolo, il Territorio risulta diviso in quattro aree: San Cipriano, Vignale, Pezzano, Filetta – Campigliano. Nella prima, dall’XI al XV secolo si assiste allo sviluppo di tredici impianti familiari (originari e/o di derivazione); nella seconda a cinque; nelle restanti tre e due.
Dal Quattrocento al Settecento.
Ai rilievi del XVIII secolo la metà degli insediamenti si mantengono a Sa Cipriano, la terza parte si polarizza a Vignale e la restante si divide tra Filetta e Pezzano. In queste ultime però i grandi nuclei familiari determinano impianti architettonici ed urbanistici a volte anche di grani dimensioni, come è il caso di Pezzano Antica e di alcune Masserie di Filetta, pur restando improntati come centri agricoli e produttivi.
Dal XVI secolo San Cipriano si distinse nel Meridione d’Italia per la lavorazione della Lana e, specialmente, per la produzione di panni e coverte che i sovrani borbonici vollero distinguere con l’apposizione del simbolo territoriale del cavallino rampante, tipico della Provincia di Napoli. La ricchezza e l’opulenza economica che ne scaturì ebbe i suoi segni esteriori maggiori nella presenza devozionale in chiese e cappelle gentilizie di opere lignee e pittoriche di pregio, finemente decorate. Ne costituisce l’esempio il patrimonio di tele e statue, visibili nelle maggiori chiese del paese: dalle ancone lignee dipinte nel tardocinquecento per la Chiesa di San Giovanni Battista a Pezzano, al seicentesco ciclo pittorico della Chiesa di San Cipriano; dalla magnifica statua di bottega napoletana dell’Immacolata Concezione di Vignale, ai tesori argentei e d’oro conservati dalle principali ed antichissime Confraternite laicali esposti ed indossati in occasione delle tradizionali feste religiose.
L’Età Moderna, dal 1806 all’Unità d’Italia.
Alla fine del XVIII secolo inizia un lento processo di sistemazione territoriale che, a seguito degli effetti della legislazione francese si concluderà nel l’atto di nascita del Comune così come oggi lo conosciamo: la formazione “della Comune” tra il 1806 ed il 1808, e la sua definitiva «classificazione», avvenuta il 19 Ottobre del 1810. Dai documenti dell’epoca evince l’aggregazione in un’unica struttura giuridica ed amministrativa delle antiche Universitas Civium di San Cipriano, Vignale, Filetta e Pezzano che, fino ad allora, pur costituendo le membra politiche, amministrative ed urbanistiche del plurisecolare corpo della Baronia di San Cipriano, in realtà formavano piccoli ed autonomi sistemi di potere feudale. L’avvento dei francesi sul Trono di Napoli, di Giuseppe Bonaparte prima e di Gioacchino Murat dopo, segnò un quindicennio di riforme amministrative e burocratiche in tutto il Regno di Napoli. Esse comportarono, tra l’altro, anche l’organizzazione territoriale, amministrativa e governativa dei vasti territori dell’Italia Meridionale. A seguito delle prescrizioni legislative del gennaio 1809, le piccole e ‘particolari’ Università Civiche, assunsero il titolo, ‘alla francese’ della Comune, ovvero di Comuni. Non solo. Il Tablò pubblicato nello stesso anno, divideva la Provincia di Salerno in tre grandi Distretti: quello di Salerno, quello di Sala e quello di Vibonati. A loro volta essi erano il risultato della somma di Circondari. Ogni Circondario, aggregava le piccole Università presenti sul territorio all’altezza dell’anno 1805. I Picentini furono così divisi in tre grandi Circondari: San Cipriano (formato dalle Università – Comuni di San Cipriano, Castiglione, San Mango, Giffoni sei Casali, Giffoni Valle Piana, con una popolazione di 7911 abitanti ), Montecorvino (formato dalle Università – Comuni di Montecorvino ed Olevano, con una popolazione di 6251 abitanti ) e Acerno (formato dalle Università – Comuni di Acerno, Calabritto e Caposele, con una popolazione di 8233 abitanti). L’avvio delle riforme amministrative e burocratiche operate dall’attività dei francesi nel Regno di Napoli, con la nascita della Provincia di Salerno, nel Gennaio del 1809 fu formato il Circondario di San Cipriano dall’aggregazione dei Comuni di Castiglione, San Mango, Giffoni Sei Casali e Giffoni Valle Piana. La creazione di questo organismo amministrativo segnò nei fatti, non solo l’implementazione dell’attività degli uffici già esistenti, ma anche la creazione di nuove strutture: la destinazione a Carcere del Mandamento del soppresso Convento di San Francesco di Paola nella Piazza Maggiore del Paese, gli uffici del Regio Giudicato. Agli inizi del XIX secolo l’immagine del Comune rimane essenzialmente immutata: quella cioè impressa dalle scelte socio-economiche dell’apparato di età baronale (secoli XV – XVIII). Predomina la caratteristica degli insediamenti sparsi, ad entità variabile e vocazione economica diversificata, proporzionali e compatibili, gioco forza, anche all’orografia territoriale e fortemente connotati dalla presenza di residenze nobiliari o strutture ed attività ad esse collegate. Entro la seconda metà dell’Ottocento gli abitati raggiungono il massimo ampliamento spaziale ed urbanistico. Quest’ultimo resterà pressoché inalterato fino agli ulteriori sviluppi degli anni Settanta e Settanta del XX secolo. Gli avvenimenti del primo quindicennio del XIX secolo proiettano il territorio comunale all’interno di una fortunata congiuntura politica, grazie soprattutto alla presenza di un apparato nobiliare di sangue e di toga che, stando agli antichi legami con l’entourage della Capitale del Regno soprattutto, ha costruito una solida e, comunque rigenerabile rete di alleanze politiche, sociali ed economiche parzialmente indenne anche agli stravolgimenti politici. Tutto ciò fa confermare all’ abitato di San Cipriano, in particolare, il ruolo di centro politico ed amministrativo, in passato dovuto alla presenza della sede rappresentativa del Governatore e dei principali Uffici della Baronia (Cancelleria, Zecca, Portolania, Scannaggio) e, dal 1806 in poi, quale centro attivo per la conduzione delle pratiche comunali e circondariali. Tale congiuntura, inoltre, nell’arco di un cinquantennio contribuì a determinare il duplicamento della popolazione che passerà dai 1960 individui censiti nel 1809 ai 3874 residenti stimati dall’Istat nel 1861. In epoca storica San Cipriano risulta il più urbanizzato, per la presenza della maggior parte dei Palazzi e residenze nobiliari, dei fondaci e degli ingegni industriali relativi alla lavorazione ed alla manifattura della lana. Lo ‘spazio costruito’ raggiunge il massimo del suo sviluppo per l’iterarsi del fenomeno delle ‘case soprane’ e ‘case sottane’ che portano nella maggior parte all’ampliamento degli abitati di antica residenza o, in pochi casi, alla costruzione di nuove dimore.
Il Sigillo, lo Stemma ed il Gonfalone
L’avvento dei francesi sul Trono di Napoli, di Giuseppe Bonaparte prima e di Gioacchino Murat dopo, segnò un quindicennio di riforme amministrative e burocratiche in tutto il Regno di Napoli. Esse comportarono, tra l’altro, anche l’organizzazione territoriale, amministrativa e governativa dei vasti territori dell’Italia Meridionale. A seguito delle prescrizioni legislative del gennaio 1809, le piccole e ‘particolari’ Università Civiche, assunsero il titolo, ‘alla francese’ della Comune, ovvero di Comuni. Non solo. Il Tablò pubblicato nello stesso anno, divideva la Provincia di Salerno in tre grandi Distretti: quello di Salerno, quello di Sala e quello di Vibonati. A loro volta essi erano il risultato della somma di Circondari. Ogni Circondario, aggregava le piccole Università presenti sul territorio all’altezza dell’anno 1805. I Picentini furono così divisi in tre grandi Circondari: San Cipriano (formato dalle Università – Comuni di San Cipriano, Castiglione, San Mango, Giffoni sei Casali, Giffoni Valle Piana, con una popolazione di 7911 abitanti ), Montecorvino (formato dalle Università – Comuni di Montecorvino ed Olevano, con una popolazione di 6251 abitanti ) e Acerno (formato dalle Università – Comuni di Acerno, Calabritto e Caposele, con una popolazione di 8233 abitanti). La divisione amministrativa operata per volontà di Gioacchino Murat praticata in ogni Intendenza, comportò l’organizzazione amministrativa e burocratica non solo dei Distretti ma anche dei singoli Comuni e dei Circondari. Quest’ultimi, in particolare, costituendo il presidio ‘decentrato’ del governo territoriale, furono dotati di uffici e compiti di coordinamento amministrativo e governativo. Dai documenti conservati nell’Archivio Storico Comunale è stato possibile ricostruire la “storia dell’araldica” degli emblemi e dei sigilli comunali, dalla nascita del Comune (1806) ai giorni nostri. Essa si distingue in sei fasi:
1) dal 1806 al 1808: lo stemma corrisponde a quello di Giuseppe Bonaparte Re di Napoli. Accanto alla blasonatura imperiale troviamo la dicitura ‘Comune di San Cipriano’;
2) dal 1808 al 1815: lo stemma corrisponde alla blasonatura di Gioacchino Murat Re di Napoli e delle Due Sicilie. Accanto alle insegne personali troviamo la dicitura ‘Comune di San Cipriano’;
3) dal 1815 al 1862: lo stemma corrisponde a quello della dinastia dei Borbone ritornata sul trono di Napoli dopo la Restaurazione. Accanto alle insegne dinastiche pubblicate da Ferdinando I Re delle Due Sicilie troviamo la dicitura ‘Comune di San Cipriano’;
4-5) dal 1862: si assiste al passaggio dalla blasonatura sabauda ad una “più particolare” ed “identificativa” immagine del Comune di San Cipriano. Per effetto di un Decreto di Vittorio Emanuele II viene aggiunto il suffisso “Picentino”, diventando Comune di San Cipriano Picentino. Lo stemma di questo periodo si presenta bipartito con l’immagine del Santo Vescovo e di una grande montagna. Intorno la scritta Comune di San Cipriano Picentino.
6) dal 1905: la Giunta comunale dell’epoca, con deliberazione n.2 del 15 Gennaio, sostituì lo stemma precedente, riproducendo un sigillo rinvenuto su un documento del 1739. Questo stemma è rimasto in vigore fino all’emanazione del Decreto del Presidente della Repubblica del 27.11.2009 con il quale ha autorizzato il nuovo Stemma e Gonfalone Comunale.
Balsonatura (dal 2009)
Stemma - Interzato in palo: il Primo e il Terzo, di azzurro, il Secondo, di verde, all’aquila con il volo abbassato, attraversante, d’oro, cornata con corona d’oro di cinque fioroni visibili, dello stesso. Ornamenti esteriori da Comune.
Gonfalone - Drappo di giallo con bordatura di azzurro, riccamente ornato di ricami d’argento e caricato dallo Stemma con la iscrizione centrata in argento, recante la denominazione del Comune. Le parti di metallo ed i cordoni saranno argentati. L’asta verticale sarà ricoperta di velluto dei colori del drappo, alternati con bullette argentate poste a spirale. Nella freccia sarà rappresentato lo Stemma del Comune e sul gambo inciso il nome. Cravatta con nastri ricolorati dai colori nazionali frangiati d’argento.
La denominazione del Comune
A poco più di un anno dalla proclamazione del Regno d’Italia, il 23 Ottobre 1862, Vittorio Emanuele II, “Re d’Italia per grazia di Dio e Volontà della Nazione”, da Torino decretò che il Comune di San Cipriano assumesse la denominazione di San Cipriano Picentino. Il documento ufficiale, che attestava tale avvenimento, fu recapitato al Sindaco dell’epoca Pio Marotta tramite la Prefettura di Salerno. Una copia rara è conservata presso l’Archivio Storico del Comune di San Cipriano Picentino (Sez. Atti, Piante è Disegni). Si tratta di un foglio 35.5 cm x 24.5 cm, firmato in copia dal Re e dall’allora Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno Urbano Rattazzi. Questo documento è importante per due morivi: Esso costituisce l’atto di nascita del Comune di San Cipriano Picentino come oggi lo conosciamo ed ‘ufficializza’ l’apposizione del suffisso Picentino. Da studi recenti, ed in particolare dalle lettura delle carte di accompagnamento al Decreto, prodotte dal Consiglio Comunale tra il 1861 ed il 1863, evince che la scelta del suffisso non fu né casuale, né spontanea ed immotivata. Tale operazione, oltre a rientrare nell’ampia e generale sistemazione della ‘geografia politica’ dell’Italia post-unitaria (comune anche a tutto il Territorio limitrofo), costituì l’ultimo e definitivo atto della lunga e secolare mutazione territoriale e toponomastica dell’attuale Comune di San Cipriano Picentino, con le frazioni di Vignale, Pezzano, Filetta e Campigliano. La Baronia di San Cipriano rispetto al Territorio limitrofo acquistò un ruolo preminente, grazie alla sedimentazione storica nobiliare e feudale che, a seconda delle vicende di storia generale, rinsaldò il legame politico e commerciale con la capitale del Regno, tanto da diventare, in seguito alle sistemazioni territoriali di primo Ottocento condotte dai francesi, il centro politico-amministrativo da dove partiva il governo di tutto il territorio, detto anche <<Circondario di San Cipriano>> . Significativa, infatti, è la denominazione assunta da San Cipriano già a cominciare dalla seconda metà del XVIII secolo. Nei protocolli notarili di Giacinto Tisi, conservati nell’Archivio di Stato di Salerno, compare per la prima volta – siamo nel 1740 – la dizione terra sancti cipriani picentinorum. L’utilizzo di questa denominazione, da parte di una classe sociale elevata (notai, giuristi, in particolare) dovette valere moltissimo, insieme a tutte le motivazioni storiche che avevano spinto non pochi esponenti della nobiltà locale ad utilizzarla e proporla al primo Consiglio Comunale post unitario per la nuova e definitiva intitolazione e riperimetrazione territoriale del 1862. Già durante il governo di <<Gioacchino Napoleone>>, infatti, la nobiltà locale seppe far valere i privilegi e le definizioni demaniali contenute in antiche scritture della cancelleria angioina o in carteggi vicereali, una parte dei quali vennero anche trascritti. Si giustifica così l’esistenza di un fascicolo isolato nell’Archivio Storico del Comune, contenente le copie ottocentesche di due documenti demaniali, uno datato 1558 e un altro 1781 che sembrano essere il corredo di una documentazione, forse più ampia ma andata perduta, presentata come ‘prova’ della storicità degli antichi confini, nel momento in cui il governo francese si accinse a sistemare il territorio del Regno delle Due Sicilie con la <<Divisione delle terre demaniali>> nel 1810. Il documento, scrittura notarile, ritrovato fortunosamente tra le carte, si apre con l’incipit <<Copia di un documento antico scritta in latino composta di n.16 pagine e in 32 facciate, che è copia di un antico documento che comincia. -copia.- presentato in camera vigesimo IV° M.S. 9bris con la data scritta nel corpo a principio millesimo cinquecentesimo quattragesimo octavo regnandibus Ecc. Dominus Carlo V°>>. Si tratta di una ulteriore reintegrazione dei territori baronali voluta da Carlo V. Non vi è dubbio che queste pagine sottolineano nuovi aspetti di storia feudale e territoriale ma la cosa che in questa sede preme sottolineare è che già nel 1558 vengono descritti minuziosamente i confini territoriali di quella che sarà la futura Comune di San Cipriano in epoca francese - formata dai villaggi di San Cipriano, Vignale , Filetta e Pezzano riuniti in quattro parrocchie - e del Comune di San Cipriano Picentino dopo il 1862. I confini vengono descritti nel rogito sopra richiamato, a firma di Pomponio Della Calce, che riassume la vicenda feudale, affermando che la Baronia è formata dalle terre di San Cipriano, Vignale, Filetta e Pezzano, e si premura di riportarne i confini territoriali: il <<monte di Tovenna>>, la <<Cerreta>> o <<Monna>> con <<i suoi adiacenti di Troncito e Cirro Crociato>>, la collina chiamata <<capitello>> e quella di <<Capo d’Onto che attacca al Monte di Dentro o Selva>>. I confini, ricordava il procuratore della Calce, sono <<per lo monte di Tovenna la via pubblica che dall’articolante e dalla terra di San Cipriano conduce a quella di Filetta, da occidente il vallone detto il Mulinello da occidente: gli arbosti nominati Salzanici da mezzo giorno: il vallone del Tovernese ai territori chiamati Canale e Costale da Tramontana. E sopra detta montagna demaniale vi è un’antica chiesa sotto il titolo di Santa Maria di Tovenna: l’articolata montagna della Cerreta, o sia Monna confina con i demaniali di Giffoni e beni posseduti da alcuni particolari della terra di Vignale da Oriente: il vallone detto della Sordine e i demaniali di S.Severino, da occidente e tramontana i beni di alcuni particolari cittadini di essa articolante da mezzo giorno: il montetto di Capitello…>>. La questione dei ‘confini’ in continua evoluzione, si trascina fino agli anni Quaranta del XX secolo, arrivando a coinvolgere persino Benedetto Croce che nel 1947, si vede recapitare una ‘supplica’ da parte del Sindaco dell’epoca, Giuseppe Noschese, con la richiesta di intercedere presso il Governo, al fine di modificare la riperimetrazione territoriale operata dopo la ricostituzione dei Comuni aggregati in epoca fascista (ed in particolare di quello di Giffoni Sei Casali), dalla quale San Cipriano Picentino perse molte delle sue “terre demaniali”.
Il Museo Civico
Istituito con Delibera di Giunta Municipale n. 11 del 13/01/2015 ha sede presso il Palazzo delle Culture e della Cittadinanza Umanitaria di Via Roma.Tale Istituto culturale intende assicurare la conservazione e la valorizzazione del Patrimonio Culturale del Territorio, favorendone la pubblica fruizione. Il Percorso museale è stato progettato a seguito della definizione dell'iter procedurale per la costituzione della sezione archeologica, ossia l'esposizione dei reperti di epoca romano-imperiale rinvenuti a San Cipriano Picentino nel 1975 (e successivamente in altre campagne di scavo) relativi alla Villa rustica (II sec. d.C.) di Via Pozzilli, in continuità con gli scavi archeologici della Chiesa Madre dedicata a San Cipriano Vescovo e Martire. Il Museo prevede anche una sezione storico-archivistica, predisposta dal Servizio Archivistico e Bibliotecario Comunale che ha prodotto una selezione documentaria reperita nel fondo di pregio della Biblioteca Comunale e dell'Archivio Storico Comunale "Benedetto Croce". Quest'ultimo, infatti, annesso al Museo costituisce un valore aggiunto, già riconosciuto anche dagli organi di tutela, in quanto, per caratteri di "unicità" ed "omogeneità", rende ben visibili i passaggi storici e l'evoluzione giuridico-amministrativa del Comune (nel 2003, il fondo antico è stato dichiarato di "valore storico e culturale" dalla Soprintendenza Archivistica per la Campania).
La Chiesa Madre dedicata a San Cipriano Vescovo e Martire
La prima notizia che cita, in questo luogo, l’ esistenza di una Chiesa dedicata al Vescovo e Martire cartaginese Cipriano, risale alla prima metà dell’ XI secolo, all’ epoca in cui i territori di San Cipriano (solo dal 1862 Picentino) appartenevano ai Principi di Salerno. La Chiesa medioevale fu costruita sui ruderi di un’ antica villa rustica romana (estesa tra gli scavi di via Pozzilli ed il sottosuolo) di cui furono riutilizzati numerosi materiali lapidei. Essa era completamente diversa da quella attuale. Le fonti documentarie riferiscono che era ad impianto basilicale con tre navate, divise rispettivamente da un filare di sei colonne marmoree, terminante con tre absidi semicircolari. A causa di terremoti, la Chiesa fu più volte ricostruita ed, in particolare, fu oggetto di una massiccia ricostruzione nel XVIII secolo. Terminata intorno al 1754, la nuova Chiesa assunse l’ aspetto attuale: a navata unica con cappelle laterali, finto transetto con due cappelloni e il grande abside semicircolare (dove è ospitata la statua di San Cipriano Vescovo). Le tracce dei vari passaggi costruttivi sono ben visibili negli scavi archeologici al di sotto della cupola, al centro della chiesa, protetti da una struttura trasparente. Risalgono agli anni ‘30 del XIX secolo gli stucchi e le decorazioni di ordine corinzio, le grandi paraste sormontate da capitelli nella navata, lungo il transetto e nell’ abside. Il patrimonio iconografico è costituito da numerose statue lignee databili tra il XVI e XVII secolo, posizionate nelle cappelle laterali della navata principale. In particolare, vanno segnalate per fattura ed antichità la statua di San Rocco e della Madonna delle Grazie nelle cappelle a destra e quella di Sant’ Antonio e di San Cipriano Vescovo nelle cappelle a sinistra. Nel transetto, invece, si aprono due antichi cappelloni appartenenti anticamente uno alla Confraternita di Maria Santissima del Rosario (a sinistra) e l’ altro all’ Università di San Cipriano (oggi dedicato al Cuore di Gesù). Nelle edicole laterali è possibile ammirare tre tele dipinte nella seconda metà del XVIII secolo da Michele Ricciardi e dalla sua bottega, commissionati dal parroco dell’epoca Gennaro Vernieri. Le tele raffigurano la Maddalena, San Lorenzo ed altri Santi sulla destra, La Madonna del Carmelo tra i Santi e la Vergine Maria tra i Santi sulla sinistra. Sull’altare maggiore, inoltre, è possibile sono conservate due grandi tele dipinte del XVII secolo raffiguranti San Michele Arcangelo (a sinistra) e San Cipriano e San Giovanni (a destra).
La Chiesa di Sant’Eusachio in Vinealis
La Chiesa di Sant’Eustachio sorgelle pendici orientali del Monte Monna o Cerreta, a 450 metri sul livello del mare. La sua architettura, con l’alta torre campanaria, segna l’estrema propaggine del territorio un tempo denominato Vinealis - oggi Vignale - frazione del Comune di San Cipriano Picentino. La Chiesa, di cui si hanno notizie sin dal 1309 si presenta ad impianto basilicale, divisa in tre navate da due filari di pilastri di roccia arenaria scolpita (riportati alla luce durante l’ultimo e recente restauro conclusosi nel 2009). Sul lato sinistro della facciata, inglobato nella muratura angolare, si erge il campanile diviso in quattro da marcapiani tondeggianti, terminante con un tamburo archivoltato, oggi cuspidato, ma anticamente chiuso come cella campanaria da una calotta semisferica. Risale al 1703, invece, la “Platea” della Chiesa nella quale, oltre ad essere annotati tutti i beni e le rendite di cui essa godeva, viene descritto il complesso architettonico così come pervenuto dopo la massiccia ricostruzione nella seconda metà del XVI secolo. In questa occasione la chiesa fu dotata di numerosi altari gentilizi appartenenti alle maggiori famiglie nobili del posto, gli Alfano, i Leone, i Candido, ecc…, che provvidero a decorarli con affreschi e pale d’altare oggi purtroppo in buona parte perdute. Tra il 1814 ed il 1823 la chiesa subì un ulteriore e più aggressivo rifacimento (probabilmente frutto delle precarie condizioni statiche attestate nelle fonti dell’epoca) che cancellò completamente gli antichi altari e tutti gli affreschi, per lasciare il posto ad una decorazione “in stile” , caratterizzata da sobrie riquadrature, lesene e paraste sormontate da capitelli corinzi . Nel corso dei recenti restauri (1998 -2010) demolendo le pesanti superfetazioni e smontando gli altari, è stato riportato alla luce il ciclo pittorico cinquecentesco, anche se restituitoci in stato frammentario e lacunoso. Si tratta di preziosi lacerti di pittura tardo rinascimentale, distribuiti lungo le navate minori (a destra ed a sinistra), all’altezza degli altari gentilizi, tra cui sono ben riconoscibili il dipinto della Madonna con il Bambino tra Santi nella Cappella degli Alfani (navata destra, II° altare) e quelli appartenuti all’antica Confraternita di San Berardino (navata destra, ultimo altare, parete nord e sud). La presenza di questi documenti pittorici, fa di questa Chiesa uno dei luoghi più interessanti di storia rinascimentale picentina. Risale a XII secolo, invece, il fonte battesimale composto da una vasca lapidea a forma ovale poggiante su di una colonnina dal colore del porfido. Nel XVIII secolo in questa chiesa avevano sede numerose confraternite, oggi estinte. Tra gli altari antichi avevano particolare importanza e venerazione quello dedicato a Maria SS.ma di Montevergine, (navata sinistra, III° altare) e quello dedicato alla Madonna del Rosario (navata sinistra, parete di fondo).
La cappella dell’Arciconfraternita dell’Immacolata di Vignale
La cappella della Arciconfraternita dell’Immacolata sorge nella frazione di Vignale del Comune di San Cipriano Picentino. E’ situata al di sotto della chiesa maggiore intitolata a Sant’Eustachio, presso le antiche case della famiglia Leone e poco distante da quelle della famiglia Mandia, D’Amato e Candido. La piccola chiesa è a pianta quadrangolare, orientata secondo l’asse est-ovest, terminante con un abside semicircolare sul lato dell’altare. L’ingresso, dato da un massiccio portone in castagno aperto lungo il lato maggiore, è anticipato da un portico archivoltato, chiuso a sua volta da un cancello in ferro battuto datato 1896. Le prime notizie sull’esistenza della cappella risalgono agli inizi del XVI secolo, quando era dedicata a San Biagio. Successivamente, la fondazione della Confraternita dell’Immacolata (1597) in essa collocata, arricchì il titolo originario con quello derivato sodalizio mariano. Oggi è indicata prevalentemente come cappella dell’Arciconfraternita dell’Immacolata di Vignale. L’interno è ad aula unica. L’aspetto architettonico risale al XIX secolo, a seguito dei restauri avvenuti tra il 1867 ed il 1881. Il pavimento è ricoperto da maioliche policrome datate 1869, i lati della chiesa, invece, sono circondati dagli ottocenteschi stalli lignei riservati ai confratelli, mentre sul lato sinistro si apre il banco maggiore, destinato ad ospitare il posti del Priore e dei suoi primi assistenti. Al di sopra è allocato un piccolo organo, costruito nel corso del XIX secolo dai maestri organari di Solfora. L’unico altare, in commesso marmoreo, venne donato dall’Arcivescovo di Salerno Antonio Salomone, confratello del sodalizio vignalese. Fu forse trasportato da una chiesa salernitana o da un deposito diocesano e montato 1871. Sul paliotto centrale, infatti, vi è profilato lo stemma dell’ordine francescano, una volta nascosto da una piastra marmorea con le insegne del vescovo metropolita. Al di sopra dell’altare, a seguito dei restauri del 1867 fu costruita una teca marmorea destinata a contenere la seicentesca statua lignea dell’Immacolata della bottega napoletana di Gaetano Patalano. Sul lato opposto all’ingresso, inoltre, si apre un piccolo vano che funge da sagrestia.
Il Castello di Montevetrano
Alle estreme propaggini occidentali del territorio del Comune di San Cipriano Picentino, nella frazione Campigliano, prende quota una verdeggiante collina, tornita e terrazzata, ricca di uliveti e di vegetazione spontanea: Montevetrano (detto monti qui betranus nel Codex Diplomaticus Cavensis nell’ anno 1064 - che con Campigliano, rientra della perimetrazione del Comune di San Cipriano Picentino nel 1862 e definitivamente nel 1946). In cima i ruderi di un castello a pianta quadrangolare vigilano sull’antico ed esteso territorio picentino. Il mastio centrale dalla forma cilindrica è visibile da più punti, per un raggio di circa trenta chilometri quadrati: dalla costa dell’antica Salernum e di Pontecagnano, fino al litorale di Eboli; dall’immediato entroterra, alle forre del fiume Fuorni e più a nord, sino ai confini orientali del territorio anch’esso fortificato, verso Giffoni, Montecorvino e Olevano. Nel Codex Diplomaticus Cavensis, tra il IX e l’XI secolo, la località Silla, Silia, Siglia Campigliano, viene citata più volte e, per certi aspetti con insistenza, data l’immediata vicinanza ai confini orientali della città di Salerno e quale suo più prossimo possedimento. Le fonti descrivono questa zona, attigua alla bia pubblica o via antica (da alcuni studiosi identificata con un tratto della strada romana Annia- Popilia o Capua-Rhegium), ricca di produzioni agricole e di seminativi, dove si coltivavano prevalentemente arbores fructiferi o pomifera (alberi da frutto), arbustum vitatum (viti), avellaneti (noccioleti) e persino “alcuni piedi di castagne”, secondo le consuetudini del latifondo romano. Non a caso nella villa rustica di epoca imperiale, i cui ruderi furono rinvenuti nel cuore del centro storico di San Cipriano Picentino, in località Pozzilli nel 1974, si produceva vino e olio. A Siglia, molti nobili salernitani di gens longobarda compravano ed affittavano le cosiddette clausure (appezzamenti di terreno recintati da siepi e fossati). Tra tutti emerge, per l’importanza e i cospicui investimenti, la figura di Donna Gemma, figlia di Landolfo di Capua e madre del Principe di Salerno Gisulfo II. Tra il 1009 ed il 1062 compra tutte le terre di Grimoaldo e dei suoi discendenti, arrivando a possedere una vastissima area produttiva. Dalla intricata rete dei contatti e delle compravendite che la riguardano emerge quanto Michele Cioffi scrisse nel 1980: “Indiscutibile la grande importanza che già nel secolo IX rivestiva l’intero territorio dell’attuale Comune di San Cipriano Picentino e zone contermini per la sua insostituibile posizione strategica dovuta alla sua topografia, dalla vicinanza alla capitale del Principato della quale era parte integrante, costituendone il naturale retroterra e l’antemurale difensivo”. Questa osservazione illuminata, cronologicamente avvalorata da quanto recentemente evidenziato dalle scoperte archeologiche (Scavi per la costruzione del Termovalorizzatore presso Cupa Siglia - 2008/2010), suggerisce una delle possibili e più probabili motivazioni circa la presenza del Castello sulla Collina di Monteventrano: punto di osservazione ‘a tutto tondo’ su un’area produttiva, anticamente antropizzata di confine, vasta e vulnerabile, anche per le sue molteplici direttrici viarie e fluviali; presidio legato e gestito dal governo della città di Arechi; elemento di un esteso ‘filare difensivo’ costituito da Castel Vernieri (presso Fuorni di Salerno), dalla Torre del Bissido (Prepezzano di Giffoni Sei Casali) dal Castello di Terravecchia (a capo della stricturia di Giffoni che proteggeva l’ingresso, da e per la Valle del Sabato), da Castel Merola (San Mango Piemonte) e dai fortilizi di Olevano ed Acerno. Per ciò esso costituì, sin dall’epoca più remota, uno dei punti cardinali del sistema socio-economico locale. Ancora nel 1867, il castello e le sue adiacenze furono designate quale base di stazionamento dei Carabinieri reali per vigilare sugli accessi alla valle e all’entroterra, contro le bande più o meno organizzate di briganti. Nella scarna letteratura a disposizione, inoltre, non mancano ipotesi e ricostruzioni, fondate e documentate, che lo individuano come nucleo fortificato già in epoca romana e, successivamente, come il castrum, posto a difesa della colonia di salernum dai bellicosi abitanti della vicina città di Picentia. Le recenti scoperte archeologiche, inoltre, hanno evidenziato la frequentazione antropica della collina, delle sue pendici e della sponda del fiume picentino dall’Età Neolitica all’Epoca medievale, rimarcando il ruolo significativo svolto dal colle, sulle pendici del quale potrebbero essere sorti i primi nuclei insediativi. Le poche fonti a disposizione, la bibliografia e le analisi architettoniche, protendono a datare la costruzione del castello tra la fine del XIII e la prima metà del XIV secolo. Sicuramente, tra il 1334 ed il 1345, si assiste ad uno dei periodi più oscuri della storia della città di Salerno, caratterizzato da guerre civili e tra ‘fazioni’ che misero ‘a ferro e a fuoco’ la capitale del Principato e le sue più immediate pertinenze, contrapponendo importanti famiglie salernitane, tra di loro, pro e contro i Sovrani angioini. La necessità di fortificare o di consolidare strutture preesistenti si fece impellente e necessaria: la cima della collina di Montevetrano, per la sua storica vocazione e posizione offriva un punto di osservazione e di difesa all’immediata ‘foria’ della città e sulle molteplici direttrici viarie. Ricostruire, o costruire solide mura difensive (circondando probabilmente il dojon secondo alcuni già esistente), fu il compito di quei milites fedeli al Re a cui la zona era andata in feudo: dei Domnmusco, Della Pagliara e dei Cioffo. Dei primi, il territorio dell’attuale Comune di San Cipriano Picentino con le sue antiche pertinenze (tra cui anche Silia, Siglia, Campigliano) fu feudo sin dal 1292. Successivamente dei Della Pagliara, poi dei Cioffo, dei Della Porta, fino all’ascesa dei Baroni Santomango nella prima meta del XVI secolo. Il Codex Diplomaticus Cavensis documenta sin dall’anno 927, in loco “Campiliano”, l’esistenza di una “corte con le sue pertinenze”, appartenente ad Arechisio figlio di Leone Salvia. Successivamente, tra il 925 ed il 979, vengono cedute alcune “terre” presso “Monte Vetrano” o “Monte cui dicitur betranum” (dell’anno 975 è la prima citazione di “monte vetrano prope salernum”). Come già detto nel numero di Giugno de “Il Picentino”, la zona dell’odierna Campigliano sin dall’epoca longobarda costituì una vasta area di produzione agricola di pertinenza principesca e nobiliare legata alla città di Salerno dove, nelle clausure (appezzamenti di terreno recintati da siepi e fossati), si coltivavano arbores fructiferi o pomifera (alberi da frutto), arbustum vitatum (viti), avellaneti (noccioleti) e persino “alcuni piedi di castagne”. L’esistenza di un sistema agricolo ed economico locale, documentato e caratterizzato da antiche consuetudini, porta a considerare la probabile presenza di più di un nucleo abitativo, di “corti”, ubicate tra la collina (dove poteva essere il “caput curtis” citato nell’anno 927) e le immediate adiacenze, non distanti dalla fascia costiera salernitana dove, dal I secolo d.C. , cominciarono a sorgere delle ville rustiche, connesse prevalentemente allo sfruttamento agricolo del territorio, come di recente hanno evidenziato le scoperte archeologiche (2008-2010). Da non escludere che uno di questi insediamenti poteva attestarsi anche lungo le sponde del fiume Picentino, a ridosso della “bia pubblica” (dove ancora oggi esistono antiche “masserie”, caratterizzate da complessi architettonici articolati e funzionali a sistemi produttivi di questo tipo). Si trattava cioè di mansi, affidati a più famiglie di coloni che con i loro attrezzi ed i loro animali provvedevano alla coltivazione, corrispondendo al signore quote di prodotto e denaro (il massaricium). Infatti, i documenti in nostro possesso sono eloquenti: La terra era concessa gratuitamente e, generalmente, per un periodo compreso tra i 10 e 12 anni, durante i quali il colono doveva impiantare prevalentemente la vite ed alberi da frutto, oltre a condurre il terraticum. Il raccolto di frutta e il vino veniva diviso a metà con il Signore, mentre i prodotti dell’orto erano ad esclusivo consumo dell’affittuario. Come già sottolineato in precedenza, nell’XI secolo emerge per l’importanza e per cospicui investimenti, la figura di Donna Gemma, figlia di Landolfo di Capua e madre del Principe di Salerno Gisulfo II. Tra il 1009 ed il 1062, infatti, compra tutte le terre di Grimoaldo e dei suoi discendenti, arrivando a possedere una vastissima area produttiva a ridosso della Città, assicurando così viveri, derrate alimentari e la sussistenza commerciale all’intero Territorio. Solo nel XIII secolo il Castello appare nella sua interezza, dotato di solide mura perimetrali e con funzione prevalentemente difensiva. L’ingresso era situato sul lato che guarda Giffoni. Entrati nel cortile vi si aprivano diversi ambienti di cui un sotterraneo (“piccola cisterna” o deposito). Tramite una scala si accedeva al piano residenziale dove vi erano alcune stanze. Sebbene lo stato dei luoghi non consenta più l’esatta ricostruzione ambientale, dopo tanti secoli, numerose spoliazioni e diversi rimaneggiamenti, è interessante notare la presenza di una “grande cisterna” (documentata e riscoperta di recente da un gruppo di studio nell’aprile 2011). Si tratta un ambiente quadrangolare situato ai piedi della torre, coperto da una volta a botte che porta evidenti segni dell’incannucciato e dell’antico intonaco. Essa era utilizzata per convogliare e conservare le acque pluviali, attraverso un sistema di canali in terracotta collegati al mastio. Al suo interso si trova graffita una stringa di numeri romani IV, XI, LXXXIII. Non a caso una leggenda popolare vuole che dal castello diparta un misterioso e grande canale che arrivavi ai piedi della collina, fino a Campigliano. La presenza di questo ambiente che, rapportato alla struttura, risulta di considerevoli dimensioni, avvalora quanto sin qui sostenuto e quanto pubblicato sul castello: Montevetrano, dapprima con la sua torre e successivamente con tutto il suo sistema difensivo, fu uno dei punti di osservazione e difesa del Territorio salernitano. Sentinella della Valle e centro propulsore di una economia agricola che contribuì a fare del Picentino uno dei territorio più ricchi di tutto l’entroterra salernitano.
Jacopo Sannazaro e San Cipriano Picentino
Jacopo Sannazaro nacque a Napoli il giorno di San Nazario (28 Luglio) del 1458. Primogenito di Cola (Nicola) e "Masella Santo Mango nobile di Salerno, di antica e onorata Casa che in atto ancor gode del Seggio di Portanova in Salerno". Ebbe un fratello più piccolo di quattro anni di nome Marco Antonio. Insieme vivevano in modesta fortuna, quando morto Cola, "lasciò i due figli sotto la tutela della sua donna: la quale costretta dalla povertà, nel principio della gioventù dei figli, ritirossi parcamente vivendo". Ma, Giuniano Maio, richiama a Napoli il fanciullo scrivendo alla madre, perchè lo mantenesse in Città "imperocchè dal suo ingegno era per ricompensare il danno". Erasmo Percopo sostiene che il ritiro presso i feudi dei Santomango coincidesse con un "volontario esilio" che il giovane si sarebbe inflitto a causa dell'amore non corrisposto per Carmosina Bonifacio. La permanenza nei Picentini sarebbe iniziata entro il 1470 e terminata entro il 1474, quando la famiglia è documentata a Mondragone. Il giovane, incline alle lettere, si formò nella Napoli aragonese, negli anni del rinnovamento culturale e artistico promosso da Alfonso il Magnianimo tra gli anni Quaranta e Cinquanta. Maturò una lunga esperienza cortigiana, come letterato e come guerriero, dal 1481 al 1494 presso Alfonso d'Aragona Duca di Calabria e, successivamente, presso Federico d'Aragona dal 1496 al 1501. Ottenne rapidamente la fama di poeta ed un posto come suo uomo di corte, tanto che Re Federico gli donò come residenza di campagna Villa Mergellina, nei pressi di Napoli e, quando il Sovrano fu costretto a rifugiarsi in Francia nel 1501 lo accompagnò, a prova della lealtà alla Casa aragonese, per ritornare in Città nel 1505, dopo la sua morte. E’ noto che Jacopo Sannazaro ebbe immediata fortuna letteraria per essere l’autore di Arcadia, la cui prima redazione, come dice Pasquale Sabatino, fu terminata "quasi certamente alla fine del 1484 o poco più" edita " senza l'autorizzazione del Sannazaro in edizione scorretta a Venezia nel 1501, ristampata da Bernardino da Vercelli nel 1502 e poi a Napoli nel 1502. Una seconda edizione, su cui lavorò l'autore è da considerare sostanzialmente conclusa intorno al 1495, stampata a Napoli a cura dell'umanista e accedemico pontaniano Pietro Summonte nel Marzo del 1504".
Nell’ecloga dedicata a Cassandra Marchese “quod puertiam egi in Picentinis” il poeta stesso riferisce dei trascorsi infantili (la mia infanzia tra i Picentini) ricordando i luoghi famosi della Baronia di San Mango e San Cipriano (oggi territorio compreso dai confini dei Comuni di San Mango Piemonte, Castiglione del Genovesi e San Cipriano Picentino) identificandoli chiaramente come appartenenti ai Picentini, desctitti come terra bucolica dalle sorgenti perenni e boschi umbratili. Inoltre, riferisce: "Huc mea me primis genitrix dum gestat ab annis, deducens caro nupta novella patri, adtulit indigenis secum sua munera divis, in primis docto florae serta gregi": Lì dove la madre me negli anni fanciulli ad un caro padre recava, lei sposa novella, e seco le sue offerte portava agli indigeni Dei e primamente serti, a un dotto consesso, di fiori Tradusse Michele Cioffi. Della frequenza picentina dei Sannazaro se ne parla già nel XVIII secolo. Nell'edizione Le Opere Volgari di M. Jacopo Sannazaro cavaliere napolitano (...) pubblicata a Venezia, dalla Stamperia Remondini, nel 1752, l'anonima mano settecentesca che "nuovamente postilla" la Vita scritta dal Crispo nel 1593 nella chiosa 16, approfondendo la partenza da Napoli per i luoghi natii della giovane vedova di Cola con i figli Jacopo e Marcantonio, si sofferma dicendo: "e così che si portasse a quei luoghi, dove per villeggiare più volte anche vivente il marito si era condotta insieme col nostro Jacopo. Siccome questi chiaramente ci narra, che che altri non l'avvertino, nell'elegia di sua puerizia huc mea..." .
La Chiesetta della Madonnella e il Culto della Vergine del Carmine
«Mamma del Carmine non ci abbandonar, noi siamo tuoi devoti e ti vogliamo sempre amar », recita il canto popolare sanciprianese intonato in occasione della “Festa del Carmine”: una preghiera per le anime che il ‘privilegio sabatino’ credeva liberate dalle fiamme del Purgatorio, per intercessione della Vergine «bruna », ogni primo sabato dopo la loro morte. «Prendi, o figlio dilettissimo, questo scapolare del tuo ordine, segno distintivo della mia confraternita. Ecco un segno di salute, di salvezza nei pericoli, di alleanza e di pace con voi in sempiterno. Chi morrà vestito di questo abito non soffrirà il fuoco eterno», rivelò la Vergine, apparsa a Simeone Stock il 16 Luglio del 1251. Il culto della Vergine del Carmine si attesta a San Cipriano Picentino intorno alla seconda metà del XVIII secolo, quando nella tribuna della Chiesa di San Cipriano Vescovo compare la bella tela della Madonna del Carmelo che mostra lo scapolare ad Elia e a San Simone Stock . La scena, dipinta da Michele Ricciardi tra il 1740 ed il 1748, sintetizza gli elementi principali del culto carmelitano: la Vergine appare ai due Santi che, attraverso lo scapolare, intercedono per salvare le anime dei fedeli dal demonio e dall’inferno. La presenza di questa immagine nella Chiesa Madre di San Cipriano Picentino indica un probabile margine temporale della diffusione del culto della Vergine del Carmine nel Picentino - chiaramente distinto da quelli più antichi e similari della Madonna delle Grazie, della Vergine del Rosario e di quella degli Angeli - che si manifestò praticamente attraverso la produzione di statue in legno e panno e, più raramente, con opere pittoriche. Nelle chiese del luogo ed in generale in quelle della zona, sono attestati e documentati fino al XVIII secolo solo altari o Confraternite legate alla quattrocentesca iconografia della Madonna delle Grazie o delle Anime Purganti, dispensatrice di abbondanza ma anche sollievo per i defunti, attraverso il latte, inteso quale ‘refrigerium’, che sgorga dalle mammelle premute dal Bambino Gesù. Dopo la Battaglia di Lepanto (1571) cominciò a diffondersi maggiormente l’immagine del Rosario, mentre il culto gesuitico provvide a promuovere l’immagine della Madonna quale Vergine degli Angeli e del Paradiso. La mediazione della “Madonna bruna”, con la nuova e prorompente testimonianza della spagnola Teresa Di Avila (canonizzata nel 1622), diversamente, accorciava la permanenza delle anime in Purgatorio e permetteva di liberarne i defunti dalle fiamme ogni sabato successivo alla loro morte. Gli strumenti della salvazione non erano più il latte, la Corona del Santo Rosario o il Bambino Gesù, come ricordava la dottrina e l’iconografia ufficiale rinascimentale e post-tridentina, ma la preghiera e lo scapolare; l’una esercitata quotidianamente e l’altro portato sempre addosso. Nei luoghi di culto della Valle del Picentino questo passaggio è ben rappresentato dalla presenza di soli repertori statuari della Vergine del Carmine e di raffigurazioni in maiolica (databili tra il XVIII ed il XIX secolo) mentre in precedenza sono frequenti altari, cappelle gentilizie, chiese e cicli pittorici con soggetti che riguardano la Vergine delle Grazie o quella del Rosario, come a Castiglione del Genovesi, nel territorio di San Cipriano Picentino, in quello dell’antico ‘Stato di Giffoni’ o a Montecorvino Rovella ed Acerno. Nella Chiesa di San Cipriano Vescovo infatti, dove esisteva talaltro il culto della Vergine delle Grazie e quello di Maria Santissima del Rosario, la Vergine del Carmine appare dalla seconda metà del Settecento. In questa chiesa vi erano anche la Confraternita del Santissimo Rosario e San Giuseppe e quella del Monte dei Morti. Entrambe coltivavano la preghiera attraverso il rosario ed il culto della buona morte, invocando il patrono San Giuseppe e praticando la celebrazione di riti (come il “settenario dei morti” a Novembre) per il suffragio delle anime dei defunti. A Sovvieco, invece, nel Comune di Giffoni Valle Piana, vi è la credenza che la Vergine del Carmine, vestita dalle donne e portata in processione dagli uomini del paese si ‘faccia rossa’, ovvero le guance della statua si arrossano sempre più mentre avanza in processione. Nel 1855 la «divozione» popolare alla Vergine del Carmine non mancò di manifestarsi anche attraverso l’edicola votiva installata sul prospetto di Casa Noschese in Via Francesco Spirito, a pochi passi dalla Chiesa Madre e dalla piazza maggiore del paese. Si tratta di una maiolica cui modello di riferimento è la Maria Santissima del Carmine, detta la bruna, venerata nella Chiesa del Carmine Maggiore di Napoli, incoronata dal Capitolo vaticano nel 1877. L’immagine è accompagnata dal motto: «chi passa per questa strata che si adora a questa Maria del Carmine a divozione di Pasquale Naddeo del fu Cesero A.D. 1855». Ma il 6 Maggio del 1895 gli animi dei sanciprianesi furono scossi da un evento miracoloso: il giovane Giuseppe Cioffi (1863 –1948) dopo incessanti sogni premonitori, ritrovò tra i ruderi delle fabbriche di una masseria “nel fondo Corte”, in località Mandrizzo, “una statuetta che non si distingueva di che cosa sia ed è l’immagine di Maria SS.ma del Carmine” (i ruderi di questa masseria sono ancora individuabili sulla strada che da Pezzano conduce al Capoluogo, all’altezza della curva detta, appunto, “della madonnella”). Il fatto viene raccontato per la prima volta in una lettera che lo stesso Giuseppe indirizzò ai proprietari del terreno l’8 Maggio 1895, dopo che la notizia si era sparsa in paese ed in tutte nelle contrade vicine, tanto da alimentare folle di curiosi, devoti ed anche l’interessamento, non solo del Clero locale, ma anche della Curia salernitana Il contadino racconta di aver sognato più volte “una donna” la quale gli aveva detto di recarsi presso le case cadute nel fondo Corte e di prendere una “cosa”. La prima volta, essendo ammalato, incaricò sua moglie, Rosa De Stefano, che però non eseguì quanto disposto. La seconda volta, dopo il ripetersi del sogno e l’insistenza del marito, tornò a casa dicendo di aver ispezionato il fondo ma di non aver trovato nulla. La terza volta fu lui stesso ad andare e, così, rinvenne quanto aveva sognato: una scultura, una “statuetta che non si distingue di che cosa sia ed è l’immagine della Madonna del Carmine” (della statuetta rinvenuta non si conoscono le fattezze, se non che era di ceramica, poiché rubata in assenza di documenti fotografici) . Sul luogo, posto nei pressi di una curva della strada che da San Cipriano scende alla frazione di Pezzano, fu costruita una piccola edicola in muratura entro cui venne conservata l’immagine. Si trattò di una costruzione semplice: un muro a capanna intonacato, aperto al centro da una nicchia archivoltata che, con il passare del tempo deperì a tal punto da richiedere un restauro. Si pensò bene di costruire una chiesetta per la celebrazione dei riti religiosi considerata anche la copiosa affluenza di pellegrini e per “poter custodire tutto quanto portavano con loro cioè grosse quantità di oggetti preziosi…”. All’uopo fu costituito un comitato civico: “I sottoscritti componenti della commissione per l’erezione di una chiesetta, in sostituzione di quella cadente, dedicata alla Vergine Santissima del Monte Carmelo, sita in questa contrada Mandrizzo, col giorno 16 Luglio p.v. inaugureranno detto tempietto, con funzioni civili e religiose”. Apprendiamo da questo documento che il 16 Luglio del 1931 si celebrò la consacrazione della nuova cappella dedicata alla Vergine del Carmine: una struttura semplice, nata dal pensiero e dalle braccia dei fedeli che – come ancora si racconta – al richiamo della campana della Chiesa Madre, si recavano sul posto a lavorare per portare avanti la fabbrica. Sul fondo dell’aula unica terminante con l’abside semicircolare, dietro il semplice altare in muratura fu collocato un tempietto ligneo destinato a contenere la scultura della Madonna (rubata nel 1975). La costruzione venne regolata da un comitato cittadino, rappresentato da Ernesto Marotta, Generoso Plaitano, Paolo Palmieri, Angelo Elia, Roberto e Giuseppe Cioffi. I lavori dovevano chiudersi entro il 16 Luglio del 1930 ma una comunicazione della “commissione” evidenzia la mancanza di sovvenzioni: “le speranze fondate sui nostri compaesani residenti nelle Americhe hanno completamente fallite”, scriveva Marotta al Podestà dell’epoca, invocandolo ad intervenire per porre fine ai lavori. La chiesetta sorse in piena campagna, lontano dall’abitato di San Cipriano, nel luogo dove ancora l’attuale toponomastica ricorda l’esistenza di un «mandrizzo», ossia di un ricovero prevalentemente invernale per le greggi. Essa, infatti, si affaccia sulla curva dell’antica «traversa rotabile» che dava accesso al guado del torrente “Tovernese” ed apriva la strada a pastori ed allevatori verso le terre demaniali della “Visciglieta” dove erano gli “usi civici” per il pascolo ed il foraggio degli animali. Contestualmente alla cerimonia religiosa, il comitato richiese l’autorizzazione ad istituire per quel giorno e per tutti gli anni successivi «una fiera di animali, onde venire in aiuto del piccolo commercio locale». Il 30 Maggio 1931, il Commissario Prefettizio Cav. Uff. Ten. Col. Enrico Chiari, vista l’istanza dei cittadini, visto il parere favorevole della Prefettura, delibera «isitutire una fiera da tenersi nel 16 Luglio di ogni anno in contrada Mandrizzo di questo capoluogo di San Cipriano Picentino». La «Fiera del Carmine» fu indetta per il 16 Luglio di ogni anno, dopo quella di San Vito a Capitignano (15 Giugno) e dopo quella di San Giovanni (24 Giugno) che, tra le altre, compare già in una nota del 29 Maggio del 1907 come “fiera di bestiame” (si vendevano bovini e suini) istituita per un solo giorno, fino alle 12.00. La fiera del 16 Luglio era anch’essa un mercato di bovini e suini, ricordata come tale nei documenti fino al 1968. Tutta la vicenda è raccontata in un libretto anonimo dal titolo “Rinvenimento della Madonna e la Costruzione della nuova chiesetta”, databile tra il 1928 ed il 1931, conservato nell’Archivio parrocchiale di San Cipriano che chi scrive ha trascritto, pubblicato ed annotato in un piccolo libretto edito dal Comune di San Cipriano Picentino, in occasione dell’inaugurazione della cappellina svoltasi il 16 Luglio 2007 a seguito dei lavori di restauro (la cappella è stata restaurata dal Comune di San Cipriano Picentino coi i Fondi POR Campania 2000-2006 P.I. – Parco Regionale dei Monti Picentino – Misura 1.9). In quell’occasione fu sottolineata l’eccezionalità della vicenda sanciprianese, che con tanta dovizia di particolari veniva raccontata in quel libretto, tanto da non essere necessaria nessuna ricostruzione storica ma, come avvenne, una sua trascrizione integrale, per offrirlo alla lettura di fedeli e curiosi, nella sua semplicità ed efficacia. Grazie alla Famiglia Milella, inoltre, ereditaria della Casa colonica oggetto del miracolo e di tutto il terreno intorno, abbiamo potuto ricomporre gran parte della documentazione ancora esistente che integra il “racconto” con una serie di importanti testimonianze: la “lettera autografa” di Giuseppe Cioffi datata 1895, le “Disposizioni per la Costruzione della Cappella” del 1928. Con quest’ultimo documento la Famiglia dei Milella, residente a Napoli, disponeva la cessione del terreno per la costruzione della cappella, come atto di pura devozione e liberalità, disciplinandone d’intesa con l’autorità ecclesiastica locale, la cura e la custodia e riservando per se e per gli eredi il “favore spirituale di una giornata di preghiera” settimanale (nell’anno 2000 inoltre, gli eredi Milella hanno donato al Comune i restanti trentamila ettari di terreno che formano, oggi il Parco comunale detto “della Madonnella”). Ricordo da ragazzino che questa storia ogni anno veniva raccontata all’ombra del tiglio, davanti alla cappellina, dall’amorevole figura femminile, la Signora Concetta che per discendenza curava la buona tenuta della cappella, assicurandone la pulizia, l’ordine, la celebrazione annuale delle Sante Messe e, con il suo racconto, contribuiva a manteneva viva la memoria dell’evento miracoloso.
Il Monumento ai Caduti in Piazza Umberto I
Il 28 Ottobre del 1933, il Sindaco Romualdo Tisi, inaugurò a San Cipriano Picentino il Monumento ai Caduti della Prima Guerra Mondiale. L’opera, formata da un piedistallo in pietra di Trani, sormontato da una statua bronzea raffigurante un “fante portabandiera”, fu realizzata su commissione del “Comitato locale per la costruzione del Monumento ai Caduti”, impiegando le offerte dei cittadini residenti, di quelli emigrati a New York e Filadelfia, e firmata dallo scultore napoletano Tello Torelli. L’artista, Donato Pirolo, era nato a Solofra nel 1877 dal conciatore Vincenzo e da Carmela D’Urso. Dopo il trasferimento a Napoli, la frequenza del Collegio Assanti, lo studio del Disegno e delle Scultura all’Istituto di Belle Arti, divenne Bibliotecario della Reale Biblioteca di “San Giacomo”. Nel 1901 insieme alla sorella Teresa (1872), fu adottato dal commediografo napoletano Achille Torelli (Direttore della Biblioteca Lucchesi Palli di Napoli) che gli diede la possibilità di aggiungere il suo Cognome al proprio, per cui da quel momento si chiamò Donato Pirolo-Torelli, in arte Tello Torelli (Solofra 1877 – Napoli 1974).Tutta la documentazione riguardante la costruzione del Monumento fu ritrovata durante i lavori di sistemazione dell’Archivio Storico Comunale (1999-2003), ricomposta in una busta e opportunamente catalogata da chi scrive. Dagli atti risulta che sin dal 1923, sotto l’impulso del Podestà dell’epoca Umberto Cioffi, fu costituito un apposito Comitato Locale che entrò nel vivo solo nel 1926. Quasi contemporaneamente, frutto di una corrispondenza italo-americana (anch’essa conservata nell’unità documentaria citata), ne fu aperto un altro in America, composto dai cittadini che vi erano emigrati tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, residenti in particolare a Boston, a New York e Filadelfia. Era il giorno 8 Maggio 1927. Tra i contribuenti figurano anche personalità come John Cifrino da Prepezzano che donò per l’opera ben 100 lire. Di quest’ultimo, in particolare, si conservano due autografi relativi alla vicenda che stiamo trattando. L’area prescelta per ospitare il manufatto fu individuata a ridosso della Piazza Maggiore, la cosiddetta “Croce” (nel 1901 era stata intitolata ad Umberto I), sul primo terrazzamento che dà sull’antica strada di collegamento con la località detta “i Luri” e la Frazione di Vignale, detto “giordino pensile crocella”. I Lavori cominciarono nel con la sistemazione di quest’area che per l’occasione fu cinta da mura e sistemata a giardino. Successivamente venne affidato l’incarico di progettare e realizzare il Monumento al napoletano Torelli che, in quegl’anni era intento a realizzare diversi altri Monumenti nelle Zone di Napoli e Salerno (in Provincia di Salerno firmò anche quello a Padula e quello di Altavilla Silentina. In quest’ultimo ritroviamo lo stesso soldato portabandiera sul piedistallo). La scultura di San Cipriano Picentino si compone di un piedistallo in Pietra di Trani sormontato da una statua in Bronzo. E’ alta complessivamente sette metri. Costò trentamila lire. (Il calco in gesso del “fante portabandiera”, utilizzato da Torelli per fondere altri Monumenti, è ancora visibile nel cortile della Caserma della Polizia di Stato a Capodimonte, in quanto l’artista viveva nella sua Tenuta, costruita nei pressi). Sul piedistallo, al centro, è posta l’iscrizione: “AI CADUTI IN GUERRA DI SAN CIPRIANO PICENTINO 1915-1918”. Grazie a circa 250 cittadini benefattori il 28 Ottobre del 1933 il giardini furono consacrati ai Caduti della Prima Guerra Mondiale i cui nomi, insieme a quelli periti durante il secondo Conflitto Mondiale, sono ricordati da due lapidi installate lungo il lato nord del muro di cinta. Dal 2004, ai sensi della Legge 7 Marzo 2001 “Tutela del patrimonio storico della Prima guerra mondiale”, l’opera è stata schedata e segnalata presso la Soprintendenza Regionale della Campania.
* I testi sono tratti da Gennaro Saviello, Picentini. Storie di uomini e di cose, in corso di pubblicazione. E' vietata la riproduzione anche parziale di testi e foto. L'autore autorizza la citazione dei contenuti della presente versione on-line (priva di apparato di note e di bibliografia) nella seguente modalità: Gennaro Saviello, Picentini. Storie di uomini e di cose in www.comune.sanciprianopicentino/cenni storici. Per la bibliografia e le citazioni documentarie si rimanda al testo a stampa.